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Giuseppe Mengoni: la fama delle opere, l'oblio dell’autore

 

 

ll destino, o forse le circostanze politico-economiche e culturali dei tempi, se non addirittura una riconoscibile inspiegabile ricorrenza, hanno fatto sì che alcune delle opere più conosciute, e, in alcuni casi, celebrate ben oltre i confini nazionali, dell’ingegnere-architetto Giuseppe Mengoni, fontanese di nascita, ma indubbiamente europeo di pensiero, travalicassero l’autore e le sue idee, separandoli, celebrando l’opera e annullandone il creatore. Per molti anni, superati quelli in cui la contemporaneità dell’opera era ovviamente legata e rapportata al suo autore, realizzazioni come la Galleria Vittorio Emanuele II di Milano, i Mercati di San Lorenzo e della Mattonaia di Firenze, il Palazzo di residenza della Cassa di Risparmio a Bologna fino alla Cella Grabinski nella Certosa di quest’ultima città, sono rimaste a celebrare unicamente sé stesse e il loro spirito, quest’ultimo spesso fusione da un lato del retaggio storico e dall’altro di un linguaggio innovativo e contemporaneamente trasgressivo. L’oblio, in cui è stato relegato Mengoni dagli studiosi e dai critici che, dell’architettura diffondono la conoscenza che si espande dalle aule delle università fino alle biblioteche degli studiosi, salvo rare eccezioni, lo ha escluso per molto tempo dal numero di coloro che nella storia dell’architettura hanno lasciato la loro impronta. Certamente le opere altro non sono che il frutto visibile della personalità e della conoscenza del loro autore, che si concretano trovando espressione e visibilità nella materialità della realizzazione; talvolta però, conoscere un’opera e non il suo artefice, non basta per coglierne appieno lo spirito, che dalla conoscenza dell’autore si estende all’interpretazione del momento storico e dei suoi contenuti, fino a giungere alla comprensione di aspetti per i quali esistevano domande ma non risposte. La valutazione di diversi storici dell’architettura che si sono occupati delle opere maggiori di Giuseppe Mengoni, oscilla, per il suo inserimento stilistico, tra gli eclettici e i neoclassici. Analizzando, e talvolta anche solo guardando le sue opere, il rigore delle scelte, dei particolari degli elementi decorativi, dei loro rapporti e proporzioni, risalendo poi alla sua formazione all’Accademia di Belle Arti, è però inevitabile coglierne l’anima neoclassica, che, in alcuni casi, arriva ad un purismo neorinascimentale. Una scelta che accomuna e caratterizza in diversa misura le sue scelte progettuali, ad iniziare dal progetto per il primo concorso del 1861 bandito dal Comune di Milano per la “Sistemazione di Piazza Duomo e vie adiacenti”. Anche solo esaminando la tavola acquerellata che dal Duomo “guarda” verso l’ipotizzato “Palazzo di fondo”, gli elementi peculiari del Rinascimento, in particolar modo quello bolognese, si sprigionano dai volumi, da materiali come il cotto, dalle forme, dalle aperture delle finestre e delle aree porticate. Poi, alla fine, nella Galleria realizzata che si affiancherà al Duomo, saranno gole e dentelli, rosoni e bifore, erme, lesene e colonne dei più puri ordini classici, ad avvolgere la muratura in mattoni chiamata a sorreggere il metallo e il vetro, materiali “trasgressivi” che le permetteranno di essere inondata di quella morbida luce che genererà plastici contrasti. Tradizione e trasgressione dunque: lo spirito rinascimentale, nella ricerca di nuove possibilità e nuovi orizzonti, si adatta ai tempi, accogliendo e sperimentando nuove tecniche e nuovi materiali. Gli ordini classici, i materiali, le forme accurate e l’uso sapiente della luce, una fedeltà verso l’arte di quei grandi come Michelangelo che, in una notte di giovanile esaltazione, aveva deciso di emulare.

© Anna-Maria Guccini  

 

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